Come trasformare una futura potenza mondiale a umile servitrice

Napoli, suo malgrado, crocevia della disfatta

La storia andrebbe (ri)studiata perché non è tutto come "ci hanno imparato"

di Gianfranco Ruggiero

Il fruscio che sentite, il rumore di fondo che vi fanno ascoltare, altro non sono che le notizie tutte uguali che dà il mainstream.

Voi pensate che sia la verità e non vi ponete domande, non fate domande.

I politici sono maggiordomi vili e ignoranti che approvano quello che altri hanno deciso.”

Sono le parole che Giulietto Chiesa pronunciò, durante uno dei suoi ultimi interventi, rivolgendosi ai giovani.

Bisogna avere sete di conoscenza, confrontarsi, crescere come donne e come uomini con la consapevolezza che ognuno di noi debba essere libero di avere ed esprimere la propria opinione. Senza preconcetti, liberi ma informati.

La posizione geostrategica dell’Italia impone più che una riflessione sul motivo della regressione che il territorio ha dovuto, suo malgrado, soffrire. Il discorso sarebbe troppo lungo e quindi, pur facendo un viaggio a ritroso, partiamo dal Regno delle due Sicilie che può essere considerato come la Germania di dieci anni fa.

La costruzione del Canale di Suez concordato tra Francia e Germania avrebbe ridotto di gran lunga i tempi di percorrenza e, di conseguenza, moltiplicato il commercio e i guadagni del Regno che già vantava una riserva aurea di 443 milioni di lire, quasi il doppio del valore detenuto da tutti gli altri Stati preunitari.

È facile comprendere che qualcosa andava fatto e “grazie” a figure come Sir James Hudson che finanziato dall’élite finanziaria britannica e con l’aiuto della polizia segreta, predispone un piano, raccoglie i fondi per finanziare l’operazione di distruzione del Regno delle due Sicilie e ingaggia migliaia di volontari, soprattutto malavitosi, provenienti da tutta Europa e dagli Stati Uniti. Al piano vanno aggiunti il mantenimento di apparenti buone relazioni con Francesco II, un accordo segreto con Vittorio Emanuele II e Cavour, l’ingaggio del mercenario Giuseppe Garibaldi, malgrado avesse dimenticato le armi a Quarto, aiutato dalle migliaia di volontari ingaggiati da Hudson e con la scorta della marina britannica, arrivò a Marsala (porto commerciale Britannico). Dopo avere eseguito il suo compito Garibaldi, sempre scortato dalle navi britanniche, il 6 settembre 1860 si reca a Napoli comodamente in treno proveniente da Vietri (esattamente 136 anni dopo Prodi si incontrò sempre a Napoli con il francese Chirac). A Napoli è atteso da Alexandre Bernier ministro degli esteri francese che, verosimilmente a seguito di accordi tra Londra e Parigi, si impegna a versargli in banca 80 milioni di lire a ricompensa del lavoro svolto.

Successivamente i Savoia trasferirono l’apparato industriale dal ricchissimo meridione d’Italia a Torino, Milano e Genova. (Fonte – L’altra storia d’Italia, 1802 – 1947 di Lamberto Rimondini)

Dice Rimondini durante un’intervista a “Il giardino dei Libri” ad agosto 2023.

“Passati poco più di cinquant’anni, con la Prima Guerra Mondiale ci indebitiamo finanziariamente anche con gli Stati Uniti ma tecnicamente diventiamo servi anche degli Stati Uniti dal 1943 in avanti laddove Londra ha il dominus, la regia politica sull'Italia e anche ovviamente Parigi.

Gli Stati Uniti quella militare, volendo essere più precisi c'è un'influenza economico-finanziaria di Londra economico finanziario militare degli Stati Uniti, Parigi si colloca a ruota di Londra. Ma c'è una ragione per cui torno sulla prima Repubblica. Winston Churchill determina la politica italiana e ci sono dei documenti desegretati, uno in particolare che allego di sei pagine che riporta un dialogo fra Churchill e il Nunzio Apostolico a Londra William Godfrey, dice Churchill:

“l'Italia è sempre stata un affare britannico, totalmente britannico avrà un certo benessere ma le decisioni politiche le prendiamo noi come abbiamo sempre fatto e gli amici russi sappiano che l'Italia è un affare esclusivamente britannico le decisioni le prendiamo noi.” 

È nero su bianco, quanto riportato fa parte di una intercettazione dell’allora servizio di intelligence OSS, poi divenuta CIA, e quindi Stati Uniti e quindi certamente non poco credibile ma molto credibile, purtroppo. E vengo al punto. Londra non vuole che in Italia ci sia alternanza politica quindi il sistema Democratico non è compiuto. Lascia che il Partito Comunista ingrossi le proprie fila, chiudono non uno ma dieci occhi sul passaggio illegale di denaro da Sofia,  Bulgaria verso l'Italia ma impedisce al Partito Comunista di andare al governo perché sennò ci sarebbe stato in ballo Gladio e tutti i segreti della NATO. Quindi il sistema italiano è bloccato e nonostante questo siamo la quarta potenza economica nel 1991.

Quindi se penso ai politici di oggi…..Beh insomma quelli della prima Repubblica avevano la schiena dritta. Questo è il succo.”

Facendo un salto di oltre un secolo da quando l’eroe dei due mondi ricevette 80 milioni per i servizi resi a Londra e Parigi, ci ritroviamo nel caos post inchiesta “Mani Pulite” (c’è stata una regia dietro?). Sul piano economico l’espulsione nel 1992 della lira dal Sistema monetario europeo (SME), che legava le valute partecipanti a una griglia di cambio predeterminata, e le oscillazioni della nostra moneta, accreditano progressivamente l’affermazione di un’Unione monetaria ristretta, senza la partecipazione italiana.

La prima pagina de La Repubblica del 1992, riporta un’intervista a Guido Carli, ministro del tesoro del sesto e settimo governo Andreotti (in ottimi rapporti con Henry Kissinger) che riporto fedelmente:

"Bisogna colpire salari e pensioni, basta con il populismo"

Siamo "in emergenza", torna ad avvertire Guido Carli. Bisogna colpire pensioni e salari, ma occorre anche puntare alla "crescita zero" del numero dei dipendenti pubblici.

E privatizzare.

E sfruttare la "disponibilità a pagare" di una parte degli utenti nei delicatissimi settori della sanità e dell’istruzione.

Quindi va riformato l'ordinamento finanziario degli enti locali.

E, ancora, vanno revisionate le procedure di bilancio... Insomma, rigore. Che poi vuol dire stringere (subito) la cinghia. Altrimenti l’Italia può abbandonare il sogno europeo perché già oggi la dinamica della spesa pubblica "non è tale da consentire" la convergenza richiesta dagli accordi di Maastricht.”

Era il momento dell’avvento del neo liberismo che prevede al centro il profitto riducendo l’intervento dello Stato e così della spesa pubblica.

Da lì a poco le Unità Sanitarie Locali divennero Aziende Sanitarie Locali. Da lì a poco la riduzione del personale non toccò certo gli organi dirigenziali ma gli operatori, chi è a contatto con il pubblico, con il paziente, con l’utente.

Negli ultimi dieci anni, ad esempio, hanno ridotto le assegnazioni alla sanità di 38 miliardi di euro, hanno chiuso ospedali, pronti soccorso, diminuzione dei servizi ma, hanno trovato la soluzione! Pagheranno un euro in più per paziente, ai medici che prescriveranno meno esami e visite urgenti, che ovviamente non per questo smetteranno di tener fede al giuramento di IPPOCRATE.

Andava detto.

Ma torniamo all’inizio della fine.

Tra il 1994 e il 1995 è sostanzialmente l’asse franco-tedesco a gestire l’applicazione del trattato di Maastricht e l’avvio della nuova moneta, fissato per il 1999. Alla solida leadership di Helmut Kohl in Germania si associa, a partire dalla primavera del 1995, il gollista Jacques Chirac.

“Grazie alla lira, Bilancia commerciale 1995 senza precedenti”. Così riportava il corriere della sera a febbraio 1996. Altri titoli: “Germania, mai così in basso”, “Made in Italy mai così bene”. Per ogni Volkswagen importata, 9 FIAT esportate; per ogni Renault importata, 3 FIAT esportate, risultato delle svalutazioni del 1992 e del 1995 non viste di buon occhio da Francia e Germania.

Ebbene sì. Anche in questo caso è facile comprendere che qualcosa andava fatto. I più informati dicono che Il 2 Giugno 1992 alla riunione sul panfilo Britannia, nel porto di Civitavecchia fu decisa la svendita dell’Italia. A quella riunione, pare, abbiano partecipato futuri presidenti della repubblica e del consiglio. Da non dimenticare che 10 giorni prima fu ucciso Giovanni Falcone e il 19 luglio stessa sorte toccò al Paolo Borsellino. Senza tener conto dell’ampia letteratura d’inchiesta in merito, va detto che la riunione in un momento del genere appare quanto mai inopportuna.

Questa è la storia.

Era il 2 giugno 1992 e l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era ancorato nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti. Su quel panfilo fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.

Gli ospiti erano, oltre ai banchieri e finanzieri internazionali, l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e le partecipate al gran completo.

Chi tenne la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni fu il Direttore generale del Tesoro, Mario Draghi.

L’operazione era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allora il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra.

Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica.

Ce lo chiedeva l’Europa.

Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese.

Si partì nel luglio 1993, con la svendita, multinazionali angloamericane, ma anche francesi, arrivano in Italia per “fare shopping”: vanno in cerca di società, specialmente agroalimentari e di meccanica di precisione. Italgel, per esempio, viene aggiudicata alla Nestlè a 680 miliardi di lire contro una valutazione di 750.

Ma anche i giganti italiani guadagnano dallo smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton si aggiudica per 470 miliardi GS Autogrill che poi rivende ai francesi di Carrefour GS per 10 volte tanto.

Poi fagocita la rete autostradale usando la leva finanziaria, si indebita per acquistarla e poi scarica il debito sulle autostrade, naturalmente si guarda bene dal vendere l’impresa perché genera proficui profitti, specialmente mantenendo la manutenzione a livelli bassissimi.

Occorre specificare che il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si estese fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le svendite presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom.

La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. Risultato? Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.

Per capire quanto valgono questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare gli incassi delle privatizzazioni con i valori attuali.

Nel 1992 la cessione del 58% del Credito Italiano produce ricavi lordi per 930 milioni di euro, nel 2002 Unicredito Italiano capitalizza 26.593 milioni di euro. Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5% dell’Imi rese 1125 milioni di euro, le successive tre tranche, pari al 19% e al 6,9%, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizza 16.941 milioni di euro. Un caso a parte è poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60% che lo Stato vende alla Bnl per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e dei crediti inesigibili con 6200 milioni di euro di denaro pubblico), è rivenduto dalla Bnl, a distanza di pochi anni, per 1000 milioni di euro. È anche vero che la BNL lo ha risanato completamente, ma la differenza tra i due valori è enorme.

In ogni caso perché questo risanamento non poteva avvenire per mano dello Stato? Perché chi lo dirigeva non era all’altezza? Non è così, e ce ne accorgeremo più avanti. Alle cifre di vendita da parte del Tesoro vanno aggiunte le commissioni per i collocatori di borsa, banche che compongono il sindacato di collocamento e altri consulenti, così come le spese di registrazione e listing sui mercati azionari, spese per adempimenti Consob, Sec eccetera. Questi costi nel corso degli anni sono diminuiti ma si aggirano comunque tra il 2% e il 3% dell’ammontare totale del ricavato. Una fetta consistente di questo denaro, circa l’1%, l’hanno poi incassata le maggiori investment bank anglosassoni, come J.P. Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston, Merrill Lynch e così via, per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche un dollaro. E senza dover neppure sostenere una gara pubblica per l’affidamento dell’incarico.

Il processo di privatizzazione che ha riguardato le banche di diritto pubblico ha, di fatto, privatizzato la Banca d’Italia. Dal 1992 la proprietà passa nelle mani di privati spesso addirittura esteri, che hanno rilevato quote sostanziose delle banche italiane come Bnp Paribas, Crédit Agricole, Banco Bilbao, Allianz eccetera. Il tutto in palese violazione dell’articolo 3 del vecchio statuto, sostituito soltanto nel 2006. Le conseguenze più importanti di questa decisione riguardano la creazione di moneta, che dalle mani dello Stato – cioè noi cittadini – passa a quelle di soggetti esteri.

A questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della nostra sovranità nazionale. Chi produce il denaro è una casta di banchieri, anche stranieri, che ce lo presta a un tasso d’interesse variabile, a seconda della fiducia che il mercato ripone nei nostri confronti. E questo denaro viene creato dal nulla. Non c’è qualcosa di assurdo nel fatto che questa situazione sia considerata migliore e più moderna del vecchio modello dove Tesoro e Bankitalia appartenevano allo Stato? Com’è possibile che ci si fidi più di forze commerciali di mercato straniere che del nostro governo?

Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno a lavorare per le grandi banche che hanno guidato la vendita del patrimonio nazionale sul mercato. Mario Draghi diventa vicepresidente della Goldman Sachs e Vittorio Grilli – ai tempi vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al Credit Suisse. Ma se costoro erano tanto bravi da essere chiamati dalle più grandi banche d’affari mondiali “i maghi della ristrutturazione delle imprese pubbliche”, allora perché non si sono rimboccati le maniche e queste metamorfosi le hanno fatte in casa, con gli stipendi dello Stato?

Fonti: “Democrazia vendesi. Dalla crisi economica alla politica delle schede bianche” e quotidiano “Il Dubbio” 22 agosto 2018

Ormai era deciso, l’Italia doveva fare ogni sforzo possibile per rispettare i parametri di Maastricht. Venne quindi concepita la manovra finanziaria da 62.500 miliardi di lire, in una riunione ristretta a Palazzo Chigi a cui partecipano Prodi, il vice-premier Veltroni e i ministri economici Ciampi, Treu e Visco. Il presidente del Consiglio punta a garantire la credibilità europea dell’impegno italiano con il varo di una “euro-tassa” ad hoc e una serie di vertici bilaterali (il 3 e 4 ottobre 1996 a Napoli con il presidente francese Chirac e una successiva visita a Bonn, per un incontro con Kohl) che creano in Europa un clima di progressiva fiducia attorno a Prodi e Ciampi, coronata dal rientro nello SME dopo quattro anni (novembre 1996) con la fissazione della parità con il marco a 990 lire.

Quindi un marco 990 lire, un euro 0,51 marchi, con l’avvento della nuova e tanto osannata moneta abbiamo un euro pari 1936,27 lire. Quasi il doppio rispetto al marco, ed il tutto avvenuto condito dai sorrisoni rassicuranti del professore. Fu una mannaia per i cittadini e per l’apparato produttivo nazionale, ma così doveva essere. Esiste un detto: “non ti preoccupare, disse il boia al condannato a morte mentre insaponava la corda”.

Nel 2014 Romano Prodi dalla sala dello Stabat Mater dell'Archiginnasio del Comune di Bologna rispose, sempre sorridendo, ad una domanda di una giornalista greca: "nel corso degli anni abbiamo svalutato la lira del 600%".

Romano Prodi. Lo stesso che nell'ottobre del 2023 pronunciò la seguente frase: "quando ero presidente della commissione europea, ho giurato fedeltà all'Unione Europea. Rappresentavo l'Italia ma ero servi dell'Unione Europea"

E per citare il titolo di un film “E noi come stronzi rimanemmo a guardare (Fabio De Luigi, Ilenia Pastorelli, Pif”

Per rimanere sul classico, Aristotele disse: “C’è solo un modo per evitare le critiche: non fare nulla, non dire nulla, non essere nulla”.

Tutti ricorderanno, infine, Mario Monti che dichiarò che le crisi degli Stati fanno bene all’Unione Europea perché così gli Stati si abituano a cedere un po’ di sovranità.

Sovranità! Che parolone. Ma questa è un’altra storia.

Vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.” Oriana Fallaci. (La piccola staffetta partigiana Emilia che dal 1943 collaborò con Giustizia e Libertà dove ebbe l’onore di conoscere Ugo La Malfa, Emilio Lussu e Carlo Levi).